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Paradosso della Cognizione Distribuita

Che cos' è la cognizione distribuita?

La nozione di cognizione distribuita è in fin dei conti piuttosto semplice. Comunemente pensiamo che le nostre prestazioni mentali dipendano da noi. Invece dipendono dall'interazione tra noi e il mondo circostante, cioè tra noi e gli oggetti che ci circondano, gli strumenti di cui disponiamo,le altre persone con cui interagiamo. Così la stessa persona, con la sua mente, le sue conoscenze, le sue abilità, può avere le sue prestazioni eccellenti in un contesto e pessime in un altro. Nonostante sia quasi ovvia, la nozione si è affermata negli anni '90 ad opera da Donald Norman (1993) ed Edwin Hutchins (1995). A lungo ha dominato l'idea classica che la mente lavori in isolamento.

Norman era interessato soprattutto agli oggetti, a come la loro costruzione e la loro collocazione negli ambienti può influire sulle nostre prestazioni. Things that make us smart è il titolo del suo libro del 1993, dove analizza tra l'altro pannelli di cabine di pilotaggio, di aerei, di navi, di impianti industriali, evidenziando come siano spesso mal costruiti. 

Hutchins, si è interessato maggiormente a come influisce sulle prestazioni mentali il rapporto con le altre persone, per cui parla anche di socially distributed cognition. Veniva da una formazione di antropologia culturale, ed era abituato a pensare che assieme le persone possono svolgere attività che non possono fare da soli. Aveva lavorato per la Marina Militare e, analizzando che cosa accade su una nave, si era accorto che c'è un'intelligenza distribuita grazie alla quale una nave può essere pilotata. Il titolo del suo libro è Cognition in the wild, per sottolineare l'approccio ecologico, lo studio della mente nel suo ambiente naturale, come su una nave dove tanti pensano assieme. 

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L'era della cognizione distribuita

Siamo nell'era della cognizione distribuita. Perché? Le nuove tecnologie della comunicazione, internet in particolare, consentono di potenziare enormemente le nostre prestazioni mentali. Rapidamente possiamo consultare un dizionario per verificare i significati di una parola, possiamo documentarci sulla biografia di uno scrittore, ragionare con i dati alla mano sull'andamento di un mercato o passare in rassegna la letteratura scientifica recente su un argomento. Su una questione possiamo confrontarci tranquillamente con esperti all'altro capo del mondo.

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Il paradosso

Il paradosso

Nonostante oggi disponiamo di strumenti che potenziano enormemente la cognizione distribuita, tendiamo a non servircene o a non servircene come potremmo. Le persone spesso hanno bisogno di determinate conoscenze, le hanno a disposizione grazie a internet, ma non ci accedono o non vi accedono adeguatamente. Ad esempio, nella sanità gli studi dicono che solo una minoranza ( nei paesi avanzati si stima un 2%) delle persone con patologie per cui avrebbero bisogno di informarsi di fatto sfruttano adeguatamente i mezzi  di oggi. Fatto interessante, questa minoranza risulta molto ben informata e si contraddistingue dalla maggioranza mal informata. Questo è in accordo con un fenomeno noto come il knowledge gap, descritto già per i media della prima esplosione tecnologica e ancor più valido per quelli della seconda. I media, contrariamente a quello che si pensava una volta, a quanto sostenuto dai teorici della cultura di massa, abitualmente non appiattiscono le conoscenze ma creano disuguaglianze nei livelli di conoscenze.

Capita anche che persone o professionisti alle prese con problemi restino locali, cercano di risolverli con i mezzi a disposizione dove vivono, pur avendo a disposizione  mezzi per muoversi a livello globale.

Come spiegare il paradosso?

Entrare nell'ottica della cognizione distribuita richiede una vera e propria rivoluzione culturale, che mette in discussione i nostri modi abituali di pensare e di fare e le nostre istituzioni. Prendiamo il modo di intendere le competenze. Siamo abituati a pensare che le persone posseggono queste o quelle competenze. Se entriamo nell'ottica della cognizione distribuita non è più cosi: le competenze sono qualcosa di dinamico, in continuo cambiamento. Tecnicamente si dice che dobbiamo passare dal paradigma del possesso al paradigma della distribuzione dinamica.

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Paradigma del possesso

Paradigma della distribuzione dinamica

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Per passare dal paradigma del possesso al paradigma della distribuzione dinamica le persone sono costrette a ripensare se stesse. Non possono più pensare di avere competenze sufficienti per il solo fatto che hanno un curriculum alle spalle, una professione o insegnano una materia. Devono continuamente sentirsi ignoranti, non all'altezza e cercare continuamente risposte e aiuti nell'ambiente che li circonda. Capiamo come mai ciascuno di noi, chi più e chi meno, tende ad opporre resistenza al cambiamento culturale della cognizione distribuita.

D'altra parte, il paradigma della distribuzione dinamica mette in crisi le istituzioni così come oggi sono. Il sistema scolastico, ad esempio, tende ad essere ancorato al paradigma del possesso nella misura in cui, attraverso un susseguirsi di valutazioni, arriva a fornire agli studenti credenziali che dovrebbero fare da passaporto nella società. A scuola spesso si trasmettono pacchetti definiti di saperi e non si lavora abbastanza per portare gli studenti a prendere coscienza che esiste un mondo sconfinato di conoscenza fuori di noi e a divenire capaci di accedervi e servirsene. Se la scuola avesse fatto suo il paradigma della distribuzione dinamica, considererebbe queste abilità una priorità. Altra caratteristica dell'istruzione, non in sintonia con il nuovo paradigma, è il fatto che gli insegnamenti sono, di solito, distinti per discipline come se ogni docente fosse il possessore di quel sapere disciplinare.

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Nella didattica tradizionale il docente possiede il sapere e lo trasmette agli allievi. Popper diceva che "riempie i secchi". In una didattica fondata sul paradigma della distribuzione dinamica, docenti e allievi cercano nel sapere fuori e dialogano tra loro. Il docente è essenzialmente in veste di tutor. Oggi i due modelli didattici andrebbero sistematicamente integrati.

Per fare un altro esempio, viviamo in un mondo in cui sono presenti molteplici professioni e dove le persone si rivolgono continuamente ai professionisti per risolvere i problemi della loro vita. Se ragioniamo nell'ottica della cognizione distribuita, le persone dovrebbero essere molto più capaci di sbrigare le loro faccende in autonomia utilizzando gli strumenti che oggi hanno a disposizione. Questo però comporterebbe un diverso modo di intendere il lavoro dei professionisti: non sarebbero più degli erogatori di prestazione, ma dei tutor che aiutano persone di per sé capaci di sbrigare le proprie faccende. La maggioranza dei professionisti non è oggi consapevole e preparata ad un cambiamento così radicale del proprio status sociale. Di qui una robusta barriera.

Gli organismi internazionali da tempo insistono sulla necessità di fare empowerment dei cittadini, in modo che diventino sempre più capaci di sbrigare le proprie faccende in relativa autonomia.

Normann D.A. (1993) Things that make us smart. New York: Addison Wesley; trad. it. Le cose che ci fanno intelligenti. Milano: Feltrinelli, 1995

Hutchins, E. (1995) Cognition in the Wild. Cambridge (MA): MIT Press

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